I luoghi della vita, 2001/2002
progetto e cura di Vittoria Ciolini e Margherita Verdi
/ Sede: Scuderie Medicee di Poggio a Caiano, Prato
/ Date: 6 aprile – 1 maggio 2002
/ Evento promosso e realizzato da Regione Toscana, Provincia di Prato – Assessorato alla Cultura, Comune di Poggio a Caiano – Assessorato alla Cultura
ENGLISH BELOW
Appare ormai evidente come la fotografia, nel suo attuale momento di maturità, assuma sempre di più il significato di una procedura, di una forma di esperienza, di una messa in atto di intenzionalità nei riguardi della realtà che sta davanti a noi e insieme dentro di noi, e sempre meno quello di una immagine in sé conclusa. Non che il valore visivo della fotografia sia caduto: questa eventualità non può darsi, ed in ogni caso è sempre e comunque il valore visivo ad incaricarsi di “rendere possibile”, fruibile dunque, ed esistente, ciò che l’atto fotografico produce. Ma ciò che conta e determina in modo definitivo questo valore visivo e gli conferisce significato, è esattamente e principalmente una procedura, un percorso, una relazione di tipo mentale ed esistenziale.
In questa procedura che guida l’autore, l’elemento tecnologico assume un peso davvero rilevante, e oggi non solo sempre più accettato, ma quasi “promosso” dagli artisti come parte essenziale del lavoro. Come dire che l’autore si pone un poco in disparte (concettualmente), o meglio mette da parte le sue “abilità”, per lasciare che il lavoro della macchina faccia il suo libero corso, e si manifesti appieno e in tutta la sua complessità nell’opera.
Si tratta, alla radice, di una importante posizione antiumanistica (o postumanistica), che discute il ruolo dell’autore nei riguardi dell’opera (non più vissuto come ruolo dominante), e si interroga sull’azione e sugli effetti degli strumenti tecnologici di cui oggi disponiamo: che sono molti, ed estremamente esatti e capaci di entrare a fondo nella progettazione stessa. Discute dunque sull’uomo stesso e sulla relatività della sua creatività e della sua capacità di assoggettare le macchine, seppure da lui stesso progettate e costruite, e di interagire con esse.
Di questa discussione oggi in corso i giovani fotografi hanno piena coscienza, e in essa intervengono con le loro produzioni, posizionandosi in modo diverso.
Katja Stuke, vincitrice dell’attuale edizione del premio I luoghi della vita, utilizzando come perno la fotografia intesa come mezzo tecnologico quale è la fotografia, lavora proprio sul controllo che le telecamere poste nei luoghi pubblici esercitano sulla nostra vita, condizionando, forse, e almeno tendenzialmente, anche il nostro comportamento.È un tema importante, soprattutto sul piano simbolico. Ci fa pensare al Grande Fratello e alla nostra comunicazione in internet sistematicamente controllata, ci fa pensare al potere e alla nostra libertà individuale minacciata, ci fa quindi pensare a quale coscienza abbiamo, oggi, della nostra libertà, e se l’abbiamo e a quale scopo vogliamo destinarla. Un senso di prigionia e di controllo segna queste immagini di luoghi diversi della nostra esistenza, che hanno la qualità materica del video e la “genericità”, la trasparenza, la fragilità cromatica delle nostre esistenze controllate e appiattite. La fotografia, immagine fissa, svolge in questo lavoro il ruolo di una azione finale che giunge a, “stabilizzare” i risultati (peraltro provvisori e per così dire intercambiabili) di una procedura che si è già svolta.
Analogamente Christine Erhard lavora sulla “meccanicità” delle nostre esistenze e insieme sulla processualità tecnologica che sorregge l’operare dell’artista. E dunque trae gli elementi che compongono le immagini da fonti diverse – fotografie digitali, ritagli di giornali, frammenti di foto di famiglia -, li organizza e li mette in scala derivandone ambienti lucidamente strutturati in senso prospettico. Ambienti del tutto artificiali prendono così le sembianze di luoghi “reali”, quanto meno rappresentati in modo realistico in ossequio ai canoni della fotografia documentaria: in realtà costruiti sulla base di una complessa procedura tecnologica, responsabile della loro esattezza, che in realtà è finzione e nulla ha più a che vedere con il documento.
Anche Karin Erni lavora sull’esattezza della visione, rappresentando con codici di grande chiarezza alcune celle nelle quali vivono donne in prigioni della Svizzera tedesca, senza però la presenza delle ospiti. Sviluppa così un lavoro di forte valore sociale al quale non a caso dà il titolo di Ritratti, e dimostra come sia possibile e sia stata possibile in passato una fotografia che guarda alla condizione umana pur non scegliendo la figura umana come oggetto d’attenzione: storie, situazioni intime, vite, abitudini, desideri si esprimono qui attraverso gli oggetti e la composizione di questi nella stanza. Può dirsi, questa, quasi una fotografia di oggetti, una fotografia che impiega gli oggetti in quanto presenze capaci di agire, significare e infine parlare.
Ute Behrend sceglie come area teorica di lavoro il rapporto fra grande e piccolo, la scala, la prospettiva. Si interroga dunque sulle modalità della rappresentazione stessa, e individua il mondo e gli oggetti dell’infanzia come tema ideale per compiere queste sue “misurazioni” della realtà e insieme della fotografia. Realizza allora alcuni dittici, che definisce “composizioni dialogiche”, nei quali ciascuna immagine dà senso all’altra. Colori freschissimi e leggeri danno un tono “infantile” e leggero al lavoro, e rimandano a un mondo in miniatura, a una dimensione altra dal reale, vicina agli ambienti dei viaggi di Gulliver.
Lea Crespi lavora sul confine fra visuale e fisico, secondo le sue stesse parole, e affronta alla radice il concetto stesso di realtà in generale e di realtà umana in particolare. Utilizzando uno schema fisso che prevede la presenza di una figura umana sulla sinistra dell’immagine in modo che sia ben visibile sulla destra la materia, la luce, lo spazio di alcuni ambienti decadenti e provvisori da un punto di vista esistenziale, struttura la scena in modo meccanico, automatico. Essere umano vero, manichino di sapore metafisico, automa, questa figura procede nello spazio e interagisce con esso, mettendo in discussione questo e se stessa.
Erika Barahona Ede recupera invece la dimensione della memoria e del privato, e “mette in scena” paesaggi di mare in bianco e nero di impronta volutamente classica. Ma non si tratta di paesaggi fini a se stessi: Erika utilizza e recupera il paesaggio per compiere un viaggio simbolico nella sua storia familiare, indicata in questa ricerca da alcune piccole fotografie di famiglia scattate anni prima dai suoi nonni, e per compiere una riflessione sulla tensione che lega e divide il mare dalla terra, due elementi fortemente radicati nella biografia stessa dell’autrice.
Due opere, quella di Aleksandra Vajd e quella di Heidi Cathrine Morstang costituiscono due opposti utilizzi della fotografia. La prima di queste fotografe costruisce un libro-diario fra finzione e realtà, ricco di dolci immagini vaganti che permettono al lettore di costruire un proprio percorso, una propria storia, comunque fortemente basata sulla suggestione dei valori visivi. La seconda invece nega in modo assoluto l’immagine e ogni tipo di esistenza visiva dell’opera, presentando superfici di carta completamente bianche sulle quali è possibile leggere a rilievo alcune frasi: è il mondo della parola ciò a cui rimanda questa riflessione sulla fotografia, disciplina che si configura qui sinteticamente ed unicamente come luce che rende leggibile la scrittura.
Roberta Valtorta
ENGLISH VERSION
It is now clear that photography, in its present moment of maturity, is taking on more and more the significance of a procedure, a form of experience, a materialisation of intention in relation to the reality before us and inside us, and less and less that of a self-contained image. Not that the visual value of photography has fallen; this cannot be, and it is in any case always the visual value which “makes possible”, thus perceivable and existing, what the photographic act produces. But what counts and finally determines this visualvalue and confers meaning on it is exactly and mainly a procedure, an itinerary, a mental and existential relationship. In this procedure which guides the author, the technological element plays a truly weighty role, which is nowadays not only more and more accepted but almost “promoted” by artists as an essential part of their work. That is to say that the author stands (conceptually) a litfle to one side, or rather puts aside his “skills”, to let the work of the machine freely take its course and fully express itself in all its complexity.
At the root lies an important anti-humanistic (or post-humanistic) position, which questions the role of the author in relation to the work (no longer regarded as the dominant role), and examines the action and effects of the technological tools available to us today. These are many, and they are extremely precise and skilful in penetrating the design itself. What is under discussion is thus Man himself and the relativity of his creativity and ability to submit machinery to his will and interact with it, despite the paradox that he himself designed and built it. Young photographers are fully aware of this ongoing debate and participate in it with their production, positioning themselves differenfly.
Katja Stuke, the winner of the current edition of the Places of life Award, concentrates on photography understood as a technological tool, and she works precisely on the control that TV cameras placed in public places exert on our lives, perhaps also conditioning, or at least tending to condition, our behaviour. lt is an important theme, especially on the symbolic level. It reminds us of Big Brother and our systematically controlled communication in Internet, and also reminds us of power and our threatened individual freedom. lt thus also makes us consider what awareness we have today of our freedom, if we have it and what purpose we want to use it for.
A sense of imprisonment and control marks these images of different places of our existence, which have the material quality of the video and the “generality”, transparency, chromatic fragility of our controlled and flat existence. Photography, a fixed image, plays in this work the part of a final action which achieves “stabilisation” of the temporary and, so to speak, interchangeable results of a procedure which has already taken place.
Similarly, Christine Erhard works on the “mechanicalness” of our existence and the technological process which sustains an artist’s work. She thus draws the elements making up the images from different sources – digital photographs, newspaper cuttings, fragments of family snaps – organising and scaling them so as to create spaces which are lucidly structured from the perspective point of view. Wholly artificial spaces thus take on the appearance of “real”, or at least realistically represented, places, obeying the canons of documentary photography. They are actually built up on the basis of a complex technological procedure, responsible for their exactness, which is really fictitious and no longer has anything to do with the document.
Karin Erni also works on the exactness of vision, showing with codes of great clarity some women’s prison cells in German Switzerland, devoid of their inmates. She thus develops a work of strong social value which, not coincidentally, she entitles Portraits, and shows how it is possible and has been possible in the past to create photographs which investigate the human condition without choosing the human figure as the object of attention. Stories, intimate situations, lives, habits, desires are expressed here through objects and their composition in the room. This might almost be called a photography of objects, a photography using objects as presences which are able to act, signify and even speak.
Ute Behrend chooses as her theoretical working area the relationship between big and small, scale and perspective. She thus examines the methods of representation itself, and identifies the world and objects of childhood as the ideal theme for carrying out her “measurements” of reality and also of photography. So she creates some diptyches, which she defines as “dialogical compositions”, in which each image lends meaning to the other. Fresh, light colours confer an “infantile”, light tone to the work, and transport us into a world in miniature, a dimension other than the real, close to the environments of Gulliver’s travels.
Lea Crespi works on the borderline between the visual and the physical, to use her own words, and confronts at its root the very concept of reality in general and human reality in particular. She structures the scene mechanically and automatically, using a fixed scheme with the presence of a human figure on the left of the image so that on the right there are clearly visible the material, light, space of some rooms which are decadent and temporary from the existential point of view. A real human being, a metaphysical-like dummy, a robot: this figure proceeds in space and interacts with it, questioning both it and itself.
Erika Barahona Ede instead recovers the dimension of memory and the private world, “filming” seascapes in black and white of an intentionally classical stamp. But they are not simply seascapes. Erika uses and recovers the seascape in order to underlake a symbolic journey into her family history indicated in this research by some small family snaps taken years earlier by her grandparents, and to reflect on the tension which links and divides the sea from the earth, two elements which are strongly rooted in the artist’s own biography.
Two works, that of Aleksandra Vajd and that of Heidi Cathrine Morstang, represent two opposing uses of photography. The former of these photographers builds up a book/diary which oscillates between fiction and reality, rich in soft floating images which allow readers to construct their own route, their own story, in any case strongly based on the evocativeness of the visual values. The latter instead absolutely denies the image and any type of visual existence of the work, presenting completely white paper surfaces on which some sentences can be read in relief. lt is the world of the word which this reflection on photography calls up, and this discipline is represented here synthetically and solely as light which makes the writing legible.
Roberta Valtorta