progetto e cura di Vittoria Ciolini e Margherita Verdi

/ Sede: ‘Le Scuderie Medicee’ di Poggio a Caiano, Via L. Il Magnifico, Poggio a Caiano (Prato)
/ Inaugurazione: sabato 8 maggio ore 15,30
/ Date: 8 maggio – 11 luglio 2004
/Iniziativa biennale promossa e patrocinata da Regione Toscana, Provincia di Prato e Comunce di Poggio a Caiano
/ Artisti: Sophie Ansar (vincitrice), Valeska Achenbach/Isabela Pacini, Anja Frers, Patrizia Riviera, Christina Skrabal, Marie Taillefer, José Van Der Heide

Il Premio Europeo Donne Fotografe I luoghi della vita è una manifestazione che da dieci anni, con cadenza biennale, si svolge nella provincia di Prato con l’intento di divulgare e promuovere il lavoro di fotografe residenti in Europa, e da quest’anno anche nei paesi del bacino Mediterraneo, sottoforma di premio, catalogo e esposizione. Questa edizione ha visto la partecipazione di 417 artiste di ben 29 paesi europei e del Bacino Mediterraneo (dal Portogallo alla Lituania, Lettonia, Russia, Slovenia, Bulgaria, Irlanda, Grecia, Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Luxemburgo, Olanda, Spagna, Austria, Francia, Belgio, Svizzera, Inghilterra, Germania, Portogallo, Siria, Egitto, Libia, Libano, Israele e naturalmente Italia). I lavori sono stati selezionati da una giuria composta da Chiara Coronelli (critica e giornalista), Eva Marlene Hodek (direttrice della House of Photography di Praga), e Nathalie Luyer (curatrice e direttrice della rivista Vis a Vis, Parigi).

Sophie Ansar (Inghilterra) fugge nei sogni della propria infanzia, dove vola verso un mondo che ancora oggi non vuole lasciare. Evoca un mondo che non è più ma che resta nella nostra memoria come un sogno immateriale.

Valeska Achenbach/Isabela Pacini (Germania/Brasile) hanno seguito i tedeschi in vacanza per fermare quei momenti in cui si prende il tempo di vivere in libertà senza riuscire del tutto a lasciarsi dietro i punti di riferimento culturali.

Anja Frers (Germania) trasforma la realtà mettendo in posa bambini davanti ad una scenografia ideale per una vita perfetta.

Patrizia Riviera (Italia) ci mostra inquadrature fissate unicamente su sguardi dagli occhi spalancati.

Christina Skrabal (Austria) colloca i suoi personaggi-bambole in spazi immaginari. Soli di fronte al vuoto che li rimanda a se stessi, s’interrogano e ci interrogano.

Marie Taillefer (Francia) usa il colore come tanti tocchi e sfumature sottili per rendere ancora più intima un’atmosfera resa vuota da un padre scomparso.

José van der Heide (Olanda) si avvicina al corpo, per toccare la realtà di quella vita in istantanea.

I luoghi della vita (2004) I luoghi della vita (2004) I luoghi della vita (2004)
I luoghi della vita (2004)
I luoghi della vita (2004) I luoghi della vita (2004)

I luoghi della vita (2004)
I luoghi della vita (2004)

 

 

 

 

 


    

progetto e cura di Vittoria Ciolini e Margherita Verdi

/ Sede: Scuderie Medicee di Poggio a Caiano, Prato
/ Date: 6 aprile – 1 maggio 2002 
/ Evento promosso e realizzato da Regione Toscana, Provincia di Prato – Assessorato alla Cultura, Comune di Poggio a Caiano – Assessorato alla Cultura

ENGLISH BELOW

Appare ormai evidente come la fotografia, nel suo attuale momento di maturità, assuma sempre di più il significato di una procedura, di una forma di esperienza, di una messa in atto di intenzionalità nei riguardi della realtà che sta davanti a noi e insieme dentro di noi, e sempre meno quello di una immagine in sé conclusa. Non che il valore visivo della fotografia sia caduto: questa eventualità non può darsi, ed in ogni caso è sempre e comunque il valore visivo ad incaricarsi di “rendere possibile”, fruibile dunque, ed esistente, ciò che l’atto fotografico produce. Ma ciò che conta e determina in modo definitivo questo valore visivo e gli conferisce significato, è esattamente e principalmente una procedura, un percorso, una relazione di tipo mentale ed esistenziale.
In questa procedura che guida l’autore, l’elemento tecnologico assume un peso davvero rilevante, e oggi non solo sempre più accettato, ma quasi “promosso” dagli artisti come parte essenziale del lavoro. Come dire che l’autore si pone un poco in disparte (concettualmente), o meglio mette da parte le sue “abilità”, per lasciare che il lavoro della macchina faccia il suo libero corso, e si manifesti appieno e in tutta la sua complessità nell’opera.
Si tratta, alla radice, di una importante posizione antiumanistica (o postumanistica), che discute il ruolo dell’autore nei riguardi dell’opera (non più vissuto come ruolo dominante), e si interroga sull’azione e sugli effetti degli strumenti tecnologici di cui oggi disponiamo: che sono molti, ed estremamente esatti e capaci di entrare a fondo nella progettazione stessa. Discute dunque sull’uomo stesso e sulla relatività della sua creatività e della sua capacità di assoggettare le macchine, seppure da lui stesso progettate e costruite, e di interagire con esse.
Di questa discussione oggi in corso i giovani fotografi hanno piena coscienza, e in essa intervengono con le loro produzioni, posizionandosi in modo diverso.
Katja Stuke, vincitrice dell’attuale edizione del premio I luoghi della vita, utilizzando come perno la fotografia intesa come mezzo tecnologico quale è la fotografia, lavora proprio sul controllo che le telecamere poste nei luoghi pubblici esercitano sulla nostra vita, condizionando, forse, e almeno tendenzialmente, anche il nostro comportamento.È un tema importante, soprattutto sul piano simbolico. Ci fa pensare al Grande Fratello e alla nostra comunicazione in internet sistematicamente controllata, ci fa pensare al potere e alla nostra libertà individuale minacciata, ci fa quindi pensare a quale coscienza abbiamo, oggi, della nostra libertà, e se l’abbiamo e a quale scopo vogliamo destinarla. Un senso di prigionia e di controllo segna queste immagini di luoghi diversi della nostra esistenza, che hanno la qualità materica del video e la “genericità”, la trasparenza, la fragilità cromatica delle nostre esistenze controllate e appiattite. La fotografia, immagine fissa, svolge in questo lavoro il ruolo di una azione finale che giunge a, “stabilizzare” i risultati (peraltro provvisori e per così dire intercambiabili) di una procedura che si è già svolta.
Analogamente Christine Erhard lavora sulla “meccanicità” delle nostre esistenze e insieme sulla processualità tecnologica che sorregge l’operare dell’artista. E dunque trae gli elementi che compongono le immagini da fonti diverse – fotografie digitali, ritagli di giornali, frammenti di foto di famiglia -, li organizza e li mette in scala derivandone ambienti lucidamente strutturati in senso prospettico. Ambienti del tutto artificiali prendono così le sembianze di luoghi “reali”, quanto meno rappresentati in modo realistico in ossequio ai canoni della fotografia documentaria: in realtà costruiti sulla base di una complessa procedura tecnologica, responsabile della loro esattezza, che in realtà è finzione e nulla ha più a che vedere con il documento.
Anche Karin Erni lavora sull’esattezza della visione, rappresentando con codici di grande chiarezza alcune celle nelle quali vivono donne in prigioni della Svizzera tedesca, senza però la presenza delle ospiti. Sviluppa così un lavoro di forte valore sociale al quale non a caso dà il titolo di Ritratti, e dimostra come sia possibile e sia stata possibile in passato una fotografia che guarda alla condizione umana pur non scegliendo la figura umana come oggetto d’attenzione: storie, situazioni intime, vite, abitudini, desideri si esprimono qui attraverso gli oggetti e la composizione di questi nella stanza. Può dirsi, questa, quasi una fotografia di oggetti, una fotografia che impiega gli oggetti in quanto presenze capaci di agire, significare e infine parlare.
Ute Behrend sceglie come area teorica di lavoro il rapporto fra grande e piccolo, la scala, la prospettiva. Si interroga dunque sulle modalità della rappresentazione stessa, e individua il mondo e gli oggetti dell’infanzia come tema ideale per compiere queste sue “misurazioni” della realtà e insieme della fotografia. Realizza allora alcuni dittici, che definisce “composizioni dialogiche”, nei quali ciascuna immagine dà senso all’altra. Colori freschissimi e leggeri danno un tono “infantile” e leggero al lavoro, e rimandano a un mondo in miniatura, a una dimensione altra dal reale, vicina agli ambienti dei viaggi di Gulliver.
Lea Crespi lavora sul confine fra visuale e fisico, secondo le sue stesse parole, e affronta alla radice il concetto stesso di realtà in generale e di realtà umana in particolare. Utilizzando uno schema fisso che prevede la presenza di una figura umana sulla sinistra dell’immagine in modo che sia ben visibile sulla destra la materia, la luce, lo spazio di alcuni ambienti decadenti e provvisori da un punto di vista esistenziale, struttura la scena in modo meccanico, automatico. Essere umano vero, manichino di sapore metafisico, automa, questa figura procede nello spazio e interagisce con esso, mettendo in discussione questo e se stessa.
Erika Barahona Ede recupera invece la dimensione della memoria e del privato, e “mette in scena” paesaggi di mare in bianco e nero di impronta volutamente classica. Ma non si tratta di paesaggi fini a se stessi: Erika utilizza e recupera il paesaggio per compiere un viaggio simbolico nella sua storia familiare, indicata in questa ricerca da alcune piccole fotografie di famiglia scattate anni prima dai suoi nonni, e per compiere una riflessione sulla tensione che lega e divide il mare dalla terra, due elementi fortemente radicati nella biografia stessa dell’autrice.
Due opere, quella di Aleksandra Vajd e quella di Heidi Cathrine Morstang costituiscono due opposti utilizzi della fotografia. La prima di queste fotografe costruisce un libro-diario fra finzione e realtà, ricco di dolci immagini vaganti che permettono al lettore di costruire un proprio percorso, una propria storia, comunque fortemente basata sulla suggestione dei valori visivi. La seconda invece nega in modo assoluto l’immagine e ogni tipo di esistenza visiva dell’opera, presentando superfici di carta completamente bianche sulle quali è possibile leggere a rilievo alcune frasi: è il mondo della parola ciò a cui rimanda questa riflessione sulla fotografia, disciplina che si configura qui sinteticamente ed unicamente come luce che rende leggibile la scrittura.

Roberta Valtorta

ENGLISH VERSION

It is now clear that photography, in its present moment of maturity, is taking on more and more the significance of a procedure, a form of experience, a materialisation of intention in relation to the reality before us and inside us, and less and less that of a self-contained image. Not that the visual value of photography has fallen; this cannot be, and it is in any case always the visual value which “makes possible”, thus perceivable and existing, what the photographic act produces. But what counts and finally determines this visualvalue and confers meaning on it is exactly and mainly a procedure, an itinerary, a mental and existential relationship. In this procedure which guides the author, the technological element plays a truly weighty role, which is nowadays not only more and more accepted but almost “promoted” by artists as an essential part of their work. That is to say that the author stands (conceptually) a litfle to one side, or rather puts aside his “skills”, to let the work of the machine freely take its course and fully express itself in all its complexity.
At the root lies an important anti-humanistic (or post-humanistic) position, which questions the role of the author in relation to the work (no longer regarded as the dominant role), and examines the action and effects of the technological tools available to us today. These are many, and they are extremely precise and skilful in penetrating the design itself. What is under discussion is thus Man himself and the relativity of his creativity and ability to submit machinery to his will and interact with it, despite the paradox that he himself designed and built it. Young photographers are fully aware of this ongoing debate and participate in it with their production, positioning themselves differenfly.
Katja Stuke, the winner of the current edition of the Places of life Award, concentrates on photography understood as a technological tool, and she works precisely on the control that TV cameras placed in public places exert on our lives, perhaps also conditioning, or at least tending to condition, our behaviour. lt is an important theme, especially on the symbolic level. It reminds us of Big Brother and our systematically controlled communication in Internet, and also reminds us of power and our threatened individual freedom. lt thus also makes us consider what awareness we have today of our freedom, if we have it and what purpose we want to use it for.
A sense of imprisonment and control marks these images of different places of our existence, which have the material quality of the video and the “generality”, transparency, chromatic fragility of our controlled and flat existence. Photography, a fixed image, plays in this work the part of a final action which achieves “stabilisation” of the temporary and, so to speak, interchangeable results of a procedure which has already taken place.
Similarly, Christine Erhard works on the “mechanicalness” of our existence and the technological process which sustains an artist’s work. She thus draws the elements making up the images from different sources – digital photographs, newspaper cuttings, fragments of family snaps – organising and scaling them so as to create spaces which are lucidly structured from the perspective point of view. Wholly artificial spaces thus take on the appearance of “real”, or at least realistically represented, places, obeying the canons of documentary photography. They are actually built up on the basis of a complex technological procedure, responsible for their exactness, which is really fictitious and no longer has anything to do with the document.
Karin Erni also works on the exactness of vision, showing with codes of great clarity some women’s prison cells in German Switzerland, devoid of their inmates. She thus develops a work of strong social value which, not coincidentally, she entitles Portraits, and shows how it is possible and has been possible in the past to create photographs which investigate the human condition without choosing the human figure as the object of attention. Stories, intimate situations, lives, habits, desires are expressed here through objects and their composition in the room. This might almost be called a photography of objects, a photography using objects as presences which are able to act, signify and even speak.
Ute Behrend chooses as her theoretical working area the relationship between big and small, scale and perspective. She thus examines the methods of representation itself, and identifies the world and objects of childhood as the ideal theme for carrying out her “measurements” of reality and also of photography. So she creates some diptyches, which she defines as “dialogical compositions”, in which each image lends meaning to the other. Fresh, light colours confer an “infantile”, light tone to the work, and transport us into a world in miniature, a dimension other than the real, close to the environments of Gulliver’s travels.
Lea Crespi works on the borderline between the visual and the physical, to use her own words, and confronts at its root the very concept of reality in general and human reality in particular. She structures the scene mechanically and automatically, using a fixed scheme with the presence of a human figure on the left of the image so that on the right there are clearly visible the material, light, space of some rooms which are decadent and temporary from the existential point of view. A real human being, a metaphysical-like dummy, a robot: this figure proceeds in space and interacts with it, questioning both it and itself.
Erika Barahona Ede instead recovers the dimension of memory and the private world, “filming” seascapes in black and white of an intentionally classical stamp. But they are not simply seascapes. Erika uses and recovers the seascape in order to underlake a symbolic journey into her family history indicated in this research by some small family snaps taken years earlier by her grandparents, and to reflect on the tension which links and divides the sea from the earth, two elements which are strongly rooted in the artist’s own biography.
Two works, that of Aleksandra Vajd and that of Heidi Cathrine Morstang, represent two opposing uses of photography. The former of these photographers builds up a book/diary which oscillates between fiction and reality, rich in soft floating images which allow readers to construct their own route, their own story, in any case strongly based on the evocativeness of the visual values. The latter instead absolutely denies the image and any type of visual existence of the work, presenting completely white paper surfaces on which some sentences can be read in relief. lt is the world of the word which this reflection on photography calls up, and this discipline is represented here synthetically and solely as light which makes the writing legible.

Roberta Valtorta

un progetto e cura di Vittoria Ciolini e Margherita Verdi

/ Sede: ‘La Cartaia’ di Vaiano, Via Fratelli Buricchi 13, Vaiano, Prato
/ Date: 8 aprile – 7 maggio 2000
/ Iniziativa biennale promossa e patrocinata da Regione Toscana, Provincia di Prato e Comune di Vaiano

ENGLISH BELOW

I lavori selezionati per la mostra I luoghi della vita (comprese le fotografie di Karen Brett, vincitrice del premio Europeo donne fotografe) esprimono |intenso interesse delle artiste per il personale, per le esperienze del quotidiano che trascendono l’ordinario. Guardano la vita delle donne da una prospettiva agorafobica, di una figlia che osserva Ia vita di famiglia disintegrarsi in un guazzabuglio di abusi e d’ingiurie mentali. La serie di Karen Brett sull’agorafobia va oltre l’immagine documentaria e coglie oggetti la cui normalità è sopraffatta da un terrore fobico e che diventano simboli minacciosi della vastità dell’esterno.
ll libro di Anna Fox, My Mother’s Cupboards and My Father’s Words mostra fotografie di luoghi puliti e innocenti in cui è presente l’invettiva e la violenza di un uomo anziano.
Negli studi di Erika Barahona Ede sugli interni deserti della casa di sua nonna, nei paesi Baschi del territorio spagnolo, compaiono ricordi d’infanzia rivisitati con la consapevolezza che la casa sarà presto demolita. Le sue fotografie propongono interni in bianco e nero e primi piani di fragile carta da parati: “muri verdi con piccole foglie bianche…muri grigi con motivi di palme grigio verde più scuro”. Nelle sue immagini, i motivi, la melanconia e il senso di perdita sono sempre presenti: un divano spezzato, un candelabro che pende da un soffitto pieno di crepe con macchie di umidità e la presenza inquietante di fantasmi del passato.
Un altro tipo di interno domestico appare nelle foto a colori di Nina Schmitz che ritrae camere da letto di donne che lavorano nei quartieri a luce rosse delle città tedesche. Le foto della Schmitz potrebbero essere considerate puramente documentarie, ma sono qualcosa di più perché diventano un viaggio strettamente personale in cui l’esotico e l’ordinario creano una perfetta amalgama.
Sabine Bungert immortala le aspirazioni delle ragazze adolescenti che posano con un nuovo vestito da pattinaggio; Wiebke Leister esamina attentamente e da vicino la strana topografia della faccia umana, mentre Heather McDonough crea un collage di stampe che diventa una mappa dell’esperienza.
Con modalità molto diverse fra loro queste fotografe parlano di esperienze e situazioni che toccano tutti noi, ponendo domande, facendo dichiarazioni, esprimendo il potere dell’immagine fotografica per farci guardare il mondo più da vicino e per vedere dentro i mondi degli altri.
Val Williams

 

ENGLISH VERSION

The bodies of work chosen for inclusion in the Places of Life exhibition (including the photographs of Karen Brett, winner of the Women’s Photography Prize) express an intense interest in the personal, in everyday experiences which transcend the ordinary. They look women’s lives from the perspective of an agoraphobic, from a daughter who watches family life disintegrate in a welter of invective and mental abuse. Karen Brett’s series on agoraphobia goes beyond the documentary, and fixes on objects whose normality is overwhelmed by the phobic’s terror, and which become menacing symbols of the enormity of the outdoors.
Ann Fox’s artist’s book My Mother’s Cupboards and My Father’s Words shows photographs of clean, innocent places ranged alongside an elderly man’s invective and violence.
In Erika Barahona Ede’s study of the deserted interiors of her grandmother’s house, in the Basque region of Spain, childhood memories are revisited, in the knowledge that th house is soon to be demolished. She photographs the interiors in black and white and makes close-up studies of fragile wallpaper: “green walls with small white leaves… grey walls with a darker grey-blue palm pattern”. Throughout the series, motifs and melancholy and loss are always present, a splintered sofa, a chandelier hanging from a cracked and mottled ceiling, ghosts from the past retaining an eerie presence.
Another kind of domestic interior appears in Nina Schmitz’ series of colour photographs of the bedrooms of women working in the red light areas of German cities. Schmitz’ photographs could be called purely documentary, but they are more than that, becoming a highly personal journey through an amalgam of exotica and the ordinary.
Sabine Bungert studies the aspirations of adolescent girls as they pose in a new skating dress, Wiebke Leister looks closely at the strange topography of the human face, while Heather McDonough makes a multi print assemblage which becomes a map of experience.
In their own very differing ways, these photographers touch on experiences and situations which affect us all, asking questions, making statements, expressing the power of the photographic image to make us look at the world more closely, to see into other people’s worlds.
Val Williams

I luoghi della vita (2000) I luoghi della vita (2000) I luoghi della vita (2000) I luoghi della vita (2000), veduta complessiva I luoghi della vita (2000) I luoghi della vita (2000)

un progetto di Vittoria Ciolini e Margherita Verdi

/ Sede: Villa Farnete, Comeana, Prato
/ Date: marzo 1998
/ Con il contributo di Regione Toscana, Provincia di Prato – Assessorato alla Cultura, Comune di Carmignano – Assessorato alla Cultura

ENGLISH BELOW

Per la prima volta, dopo anni di lavoro nel campo della fotografia d’autore, sono stata invitata a far parte di una giuria per un premio fotografico. Devo dire che l’esperienza è stata senz’altro positiva.
ll progetto I luoghi della vita è riuscito a mettere insieme un numero assai importante di lavori fatti da donne che utilizzano la fotografia come mezzo per la loro ricerca artistica. Vorrei innanzitutto sottolineare il buon livello generale dei progetti presentati. Ne1 complesso, si potrebbe parlare di un interesse molto forte per il quotidiano, il banale, per tutto que1lo che vicino e che ci può aiutare a trovare una sicurezza davanti alle incertezze dell’avvenire. C’è una riflessione che mette a confronto lo spazio pubblico e quello privato: lo spazio privato come luogo d’identità, 1o spazio pubblico come luogo dell’anonimato. L’uso del colore, maggioritario, viene a rinforzare questa volontà di fissare il quotidiano.
Gundula Friese, che è stata vincitrice con la sua serie Image of the human being ci mette in confronto con delle immagini di persone riprese nelle strade, persone anonime in spazi pubblici, gesti fermati dalla macchina fotografica che nulla ci spiegano, perché non c’è nulla da spiegare. Riflessione sull’immagine fotografica che riesce a isolare 1e persone da un contesto urbano e sociale senza però dargli una identità individuale o nemmeno stabilendo dei legami fra di loro, confondendo anche i tempi delle riprese e, dunque, riflessione sul mezzo fotografico ed i suoi legami con la realtà, e con il flusso del tempo.
Con Luoghi caldi e sicuri, Sarah O’NeiIl dirige il suo sguardo negli angoli delle case dei suoi familiari ed amici per scoprire 1e tracce del cattolicesimo mescolati agli oggetti quotidiani. Segnalando queste figurine e stampe ci fa capire fino a che punto la religione faccia parte della vita di tutti i giorni nella società irlandese.
Uschi Huber con il suo progetto Public Space si inserisce fra quegli artisti che da qualche anno lavorano sugli spazi pubblici come 1uoghi emblematici della nostra epoca. Parchi, piazze, strade che le persone attraversano ogni giorno o dove fanno una sosta, come è il caso nelle fotografie di Huber.
Voyage di Karine Granger offre la possibilità allo spettatore di condividere con questa giovane fotografa i suoi percorsi giornalieri. Percorsi fatti di sensazioni, osservazioni e sentimenti di passaggi fra que1lo più intimo e personale e quella realtà esterna con la quale ci confrontiamo ogni giorno.
Ilaria Limonta ne1la sua serie I 1uoghi del privato invece ci fa fare un viaggio molto più ristretto, cioè un viaggio all’interno della sua casa. Nelle sue riprese inquadra gli oggetti di uso quotidiano, g1i oggetti carichi di senso per lei, gli oggetti messi lì semplicemente per arredare. Attraverso gli oggetti l’artista ci propone un ritratto di se stessa.
E per ultimo Cristina Zamagni ci propone un lavoro sul suo corpo e lo spazio fisico con il quale si trova in contatto. Riflessione sul primo sguardo che ogni mattina dirigiamo al nostro corpo. II corpo come luogo familiare ma anche, come sottolinea l’autrice, “luogo di una trasformazione in atto” nel quale si riflettono alla pari il personale e il sociale.
Cristina Zelich

 

ENGLISH VERSION

After years of working in the fied of art photography, for first time I was invited to sit on the jury of a photographic competition. It was undoubtedly a positive experience. The project Places of life succeeded in bringing together an important number of works by women who use photography as a means of expression in their artistic research. First of all, I would like to emphasize the prevailing high level of the projects presented. On the whole one remarks a great interest for ordinary everyday 1ife, in all that is close to us and gives us security when facing the uncertain future. A reflection which compares public and private space: private space being a place of identity as opposed to anonymous public space. The frequent use of colour reinforces this desire to capture everyday life.
Gundula Friese, the winner with her series Image of the human being, puts us in front of street shots of people, anonymous people in public spaces, gestures, captured by the camera, which explain nothing because there is nothing to explain. Reflections on the photographic image which isolates people within an urban context without giving them individual identity or even establishing connections between them. Through re-photography she confuses the time of the shot and in this manner makes a consideratlon on the photographic means and its ties with reality and the flow of time.
Sarah O’NeiIl with her Luoghi caldi e sicuri (Warm secure places) explores the corners inside the homes of her family and friends looking for traces of catholicism intermingled with objects for daily use. By revealing these figures and prints she makes us realise to what point religion is part of everyday life in Irish society. Uschi Huber with her project called Public Space places herself among those artists who have now been working for a few years on public spaces as emblematic places of our time. Parks, piazzas, streets that people pass through every day or where they stop, as is the case in Hubers photographs.
Voyage by Karine Granger permits the spectator to share her routine movements made of sensations, observations and sentiments of passage between what is personal and intimate and the external reality with which we have to deal with everyday.
Ilaria Limonta in her series I luoghi de1 privato (The Private Places) takes us on make a much briefer excursion, that is, a journey inside her home. She shoots objects for everyday use, objects which are laden with meaning for her and simply decorative objects. The artist gives us a self-portrait of herself through these objects.
Lastly Cristina Zamagni proposes a work on her body and the physical space with which it is in contact. Reflections on the first gaze which every morning we give our body. The body as a familiar place but also as she stresses “a place undergoing transformation” where personal and social are equally reflected.
Cristina Zelich

 

I luoghi della vita 1998_0001

I luoghi della vita 1998

 

 

un progetto di Vittoria Ciolini e Margherita Verdi

/ Sede: Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato
/ In collaborazione con Regione Toscana, Comune di Prato, Coop Prato, Banca Toscana sede Prato, Dryphoto arte contempranea, ADM’80.

Il premio nasce con una edizione italiana nel 1995, rivolta a fotografe residenti in Italia. L’iniziativa ottiene fin da subito un successo superiore alle aspettative, infatti vi partecipano 108 artiste fotografe. La giuria composta da Irene Bignardi (giornalista e collaboratrice del quotidiano La Repubblica), Laura Leonelli (giornalista e collaboratrice del quotidiano Il Sole 24Ore), Roberta Valtorta (critica e storica della fotografia), assegna il premio a Sabine Korth e segnala i lavori di Gabriella Nessi Parlato, Roberta Orio, Cristina Zamagni.
L’iniziativa si conclude nel febbraio dell’anno 1996 presso il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci con una mostra dei lavori della vincitrice e delle segnalate, la pubblicazione del catalogo con una sintesi del lavoro delle partecipanti, un convegno con esponenti del mondo dell’arte e della fotografia.